Il termine bunkai nell’originale scrittura giapponese è formato da due cangi (ideogrammi): il primo significa “parte di qualcosa”, il secondo indica l’azione di “slegare, liberare o sciogliere”.
Nella sua interezza bunkai vuol dunque dire scomporre, smontare, dissociare e più in generale ridurre qualcosa di complesso alle sue componenti fondamentali. Nel karate la parola bunkai è generalmente usata per indicare l’applicazione pratica di un kata. Anche intuitivamente è facile capire quale stretto legame unisca le due cose, non è infatti possibile parlare del bunkai senza parlare del kata, tanto evidentemente la pratica del primo è legata alla conoscenza del secondo, in un certo senso il bunkai si colloca vicino all’estremo finale di un ideale percorso di apprendimento di cui il kata rappresenta il principio. È questa una via complessa, costituita da molti livelli, strati di esperienza e progressione tecnica che si sommano lentamente nel corso degli anni, fino a formare una base solida necessaria per poter andare oltre.
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Ogni tappa è ugualmente imprescindibile ai fini del processo formativo ed è quindi importante impiegare tutto il tempo necessario e non trascurare alcun aspetto di questo iter.
A volte può succedere, nella vita come nello sport o nell’arte, che un percorso si evolva seguendo una traiettoria circolare che porta a far coincidere inizio e fine, quasi a disegnare un cerchio, figura geometrica perfetta per eccellenza. Dunque è possibile che, dovendo imparare un nuovo kata, si cominci proprio smontandone la sequenza, dividendola in piccole parti per poterla più facilmente studiare e memorizzare. Si parte analizzando in dettaglio le tecniche sconosciute, per arrivare a familiarizzare con la traiettoria degli attacchi e delle parate, il succedersi degli spostamenti e le dinamiche del corpo. Seguono, poi, le fasi che costituiscono o accompagnano tutti i primi periodi di studio di un kata: provare piano, unire le varie parti, provare ancora, provare con più forza, guardare il kata eseguito da chi ha più esperienza e scoprirlo già un po’ diverso; provare ancora, imparare a memoria l’embusen (tracciato degli spostamenti) senza quasi rendersene conto; provare forte, cercare di capire e ricordare il ritmo secondo cui si concatenano le tecniche, contrazione e decontrazione, lentezza e velocità e poi confondersi e provare ancora e ancora.
Imparare a memoria la sequenza è forse la parte più semplice ed insieme il livello più elementare nello studio di un kata. Sarà da questa struttura primaria, quasi una fragile ossatura che si potrà iniziare o, se si preferisce, continuare un lungo e paziente lavoro di costruzione della forma e di ciò che in essa è contenuto. Rafforzando le ossa, costruendovi attorno i muscoli e i tendini, crescendo pazientemente i polmoni, vene a arterie e cuore. Sia in senso reale che metaforico. Molta parte di questo lavoro è fatto di ripetizione: pensare di fare un movimento non equivale a farlo realmente; farlo qualche volta non equivale a ripeterlo centinaia di volte. Bisogna ripetere un kata molte volte e molte altre ancora per raggiungere una certa padronanza e per poterlo quindi eseguire in una maniera che è più fisica che istintiva. Con una facilità che si raggiunge solo attraverso la reiterazione continua del gesto atletico e che porta infine alla completa metabolizzazione della sequenza da parte della mente, ma, più di tutto, da parte del corpo. A questo livello è possibile eseguire il kata senza pensare alla successione dei movimenti, senza dover ragionare su cosa viene dopo e da questo livello ci si può concentrare maggiormente sulla tecnica.
Eseguire per la prima volta un kata con avversari reali può rivelarsi un’esperienza sgradevole e frustrante, destinata a rimanere tale per lungo tempo. Questo tipo di allenamento mette a nudo impietosamente le proprie manchevolezze di qualsiasi tipo esse siano. Prima fra tutte l’inefficacia delle tecniche stesse. Movimenti ripetuti migliaia di volta diventano pietosamente incerti: non si riesce più ad eseguire correttamente la sequenza ma non solo, a volte, addirittura a ricordarsela; parate e attacchi risultano così poco reali e l’impressione generale che ne consegue è di profonda inadeguatezza. Ma questa dolorosa sperimentazione serve sempre e comunque, se non altro a porsi delle domande. Ancora una volta, come spesso è accaduto nell’accezione più alta del termine “arte”, cambiando alcuni parametri si sono sconvolti equilibri faticosamente guadagnati. In alcuni casi il problema può nascere dal fatto di non aver ancora raggiunto un livello tecnico sufficientemente alto per affrontare questo tipo di prova, ma in generale è possibile che il problema sia fondamentalmente diverso.
L’allenamento, a cui ci si sottopone così a lungo ed intensamente, è altamente specializzante e la struttura sia tecnica che mentale, che ci si costruisce, è spesso così compatta e rigida da escludere necessariamente tutto ciò che devia anche leggermente. Quando ci si trova in una situazione diversa e l’orizzonte mentale in cui si è abituati a muoversi e a vedersi è dissimile, può capitare di rimanere bloccati, incapaci di adattarsi alle nuove coordinate spaziali. L’interazione con l’attaccante va a modificare il ferreo ordinamento delle tecniche all’interno di un tipo di pratica che non prevede avversari reali.
Il tempo e il ritmo non sono più una sfida univoca alle personali capacità, la distanza con l’attaccante acquista un’importanza di particolare spessore rispetto a prima. La capacità di destreggiarsi fra queste variabili restando fedeli al kata non è il tipo di abilità che si può acquisire nel giro di pochi giorni. Così come avviene per il kata, anche nel caso del bunkai è necessario seguire una progressione graduale che consenta di migliorare costantemente fino a raggiungere la piena padronanza delle tecniche del kata, anche e soprattutto all’interno di un contesto completamente diverso.
Un altro tipo di lavoro, molto utile per crescere sia tecnicamente che tatticamente e contemporaneamente per allargare e rendere più elastici gli schemi mentali che ci si è costruiti nel corso del tempo, è rappresentato dal bunkai del kion. Solitamente in questo tipo di allenamento, la sequenza di tecniche presa in esame è decisamente più breve e perciò meno complessa; questo in un certo senso facilita il compito e permette di affrontare ogni passaggio con maggiore concentrazione. Anche in questo caso, nella fase iniziale, riesce difficile svincolarsi dall’abitudine a interpretare la tecnica nell’unico modo che si percepisce come corretto, assorbito durante anni di allenamento. Così di volta in volta si introdurranno delle piccole variazioni, si eseguirà la tecnica o la sequenza di tecniche a partire da una situazione in movimento oppure si studierà come usare una “finta” o come guadagnare spazio negli spostamenti. Soprattutto s’imparerà a gestire tempo e ritmo di uno scontro seppure breve con l’avversario, preludio ed accompagnamento dell’allenamento di kumite.
“Se non si pensa che si è in procinto di colpire, se non si permette che nascano pregiudizi o riflessioni, se, nell’istante preciso in cui si vede la spada che oscilla, questa visione non invaderà totalmente la mente, si potrà intervenire nell’azione dell’avversario strappandogli la spada”.
L’allenamento per il bunkai è strettamente legato al concetto di prontezza, sia fisica che mentale. Ovvero, essere preparati a reagire in qualsiasi situazione, anche la più spiazzante. Essere pronti a muoversi nello spazio in qualsiasi direzione, retrocedendo o avanzando a seconda dei casi, trasformando una parata in attacco o viceversa. Riuscire a reagire in maniera istintiva e quindi velocissima, grazie al sapere e all’esperienza accumulate durante gli allenamenti. Essere decisi a reagire in qualche modo e avere la capacità di farlo. Saper fare quello che è corretto ma anche il suo contrario. Essere sempre pronti.
A volte è sufficiente il variare di anche una sola componente nell’esecuzione della tecnica per squilibrare l’azione e costringere a riesaminare tutto l’operato, quando si lavora per migliorare caratteristiche, quali ad esempio potenza, lo scatto e la velocità, ci si rende subito conto di come la struttura formale, tanto faticosamente costruita, vacilli sotto il peso di nuove difficoltà. Eppure alzare costantemente il livello del propri obiettivi è indispensabile se si vuole avanzare lungo la strada intrapresa. Questo tipo di ricerca è affine e parallela rispetto alla ricerca di una perfezione formale e, forse è superfluo aggiungerlo, ugualmente importante. Il valore di una tecnica esteticamente pregevole, ma vuota di forza e consistenza, è poca cosa rispetto ai reali obiettivi che ci si pone praticando un’arte marziale. Per questo motivo è necessario mettersi alla prova sinceramente, rifiutando la comodità così come l’opacità della routine. Di volta in volta disgregare l’immagine di correttezza esteriore in favore di potenza, velocità ed efficacia o viceversa e poi reintegrare tutto in una continua ricerca di miglioramento. Anche in questo caso è necessario guardare con sincerità e spirito critico il lavoro svolto e i risultati raggiunti, correggersi se necessario e, a volte, cominciare da capo nonostante la fatica che ciò comporta.
Raggiungere un buon livello di padronanza del kata significa conoscerne e soprattutto capirne il ritmo. La dinamica secondo cui si susseguono le tecniche e l’uso del tempo, caratterizzato da pause ed accelerazioni, movimenti lenti e combinazioni veloci hanno un preciso significato, non sempre di facile interpretazione. Una prima basilare forma di bunkai consiste nell’eseguire il kata cercando di visualizzare l’avversario o gli avversari da cui ci si deve difendere e poi contrattaccare quando si eseguono le varie tecniche. Questo tipo di esercizio non è semplice; nell’esecuzione del kata, doti fisiche, abilità tecnica e soprattutto la capacità di concentrazione sono già sollecitate ai massimi livelli, aggiungere un altro elemento stressante costituisce sempre un problema ma, come sempre, anche l’unico modo per migliorarsi. Un escamotage per facilitare questo compito può essere quello di studiare il kata eseguendolo avversario per avversario, dividendolo cioè in microcombinazioni, in cui una piccola pausa separa le tecniche dedicate ai vari attaccanti.