Significato della parola Karate

“Mano vuota”

Nel 1922, Funakoshi scrive un libro intitolato “Rykkyu kenpo karate” (Il karate, pugilato di Ryu-kyu), e nel 1924 un altro intitolato “Rentan goshin karate jutsu” (Tecnica del karate – rafforzamento energetico e autodifesa). In queste due opere egli scrive il termine karate con gli ideogrammi che significano «la mano della Cina». E’ verso il 1930 che egli comincerà a trascrivere kara con l’ideogramma che significa «vuoto».
Con il montare del nazionalismo, l’ideogramma «Cina» appare come un elemento di disturbo per l’integrazione del karate nella tradizione del budo giapponese, e anche per la sua diffusione, tanto più considerando che la tradizione del budo è molto vicina al militarismo giapponese, in via di rafforzamento nel corso degli anni Trenta. E’ in questa situazione sociale che G. Funakoshi sceglie, per scrivere il suono kara di karate, di sostituire l’ideogramma che significa «Cina» con quello che ha il senso di «vuoto». Egli spiega questa scelta attraverso queste due piccole frasi dell’insegnamento buddista zen:

Shiki soku ze kuKu soku ze shiki
che significano:

Tutti gli aspetti della realtà visibile equivalgono al vuoto (nulla), Il vuoto (nulla) è l’origine di tutta la realtà.
Ugualmente tutte le discipline del budo giungono alla fine allo stato di un uomo a mani vuote, e lo stato di un uomo a mani vuote è il principio di tutto il budo. E’ così che si è formato il termine «karate» ripreso oggi nelle lingue europee. La parola «karate», quando la sentiamo, riflette questa profondità? Quale significato veicola in queste lingue? Dopo aver scelto gli ideogrammi, G. Funakoshi aggiunge al termine karate il suffisso do (via) e l’arte si chiamerà d’ora in avanti karate-do. Questo termine viene dapprima adottato dal gruppo di karateka dell’università Keio, che incoraggiano G. Funakoshi a utilizzarlo pubblicamente. Numerosi adepti anziani di Okinawa criticano allora severamente G. Funakoshi per l’adozione di questo termine. Alcuni anni più tardi quasi tutti gli esperti avranno adottato questa terminologia. Questi fatti testimoniano la differenza di filiazione tra il karate di Okinawa e il budo giapponese, poiché la nozione di do non era implicitamente presente nel karate di Okinawa come lo era nel budo. Lo sforzo di adepti come G. Funakoshi ha teso a integrare la cultura del budo per innalzare la qualità del karate.
L’adozione del termine karate risale agli anni Trenta. Questo cambiamento di nome è rivelatore di una fase importante nella storia di questa disciplina. Corrisponde al passaggio da un’arte segreta, il cui nome, variabile, importava poco, all’affermazione di un’arte riconosciuta, il cui nome ne indica l’orientamento. La parola karate significa: «mano vuota»; essa ha in sé un’indicazione tecnica e un’idea filosofica, poiché questo «vuoto» va inteso nell’accezione buddistica del termine. In giapponese Karate si scrive con ideogrammi, e il legame tra il carattere scritto e il suono non è così diretto come nelle scritture fonetiche. Spesso esistono diverse pronunce per lo stesso ideogramma e lo stesso suono può corrispondere a più ideogrammi. Il nome antico di karate era to de «la mano (de o te ) della Cina (to )», o più semplicemente te o de. L’ideogramma to si pronuncia anche kara e, all’inizio del ventesimo secolo, ha cominciato a essere impiegata questa pronuncia: kara-te «la mano (te) della Cina (kara)». Il termine te o de, letteralmente «mano», ha anche il significato di «arte» o «tecnica». L’uso della pronuncia kara permetteva di giocare su un doppio senso, poiché il suono kara in giapponese significa anche «vuoto», ma viene scritto con un altro ideogramma . Il cambiamento dell’ideogramma corrispondente al suono kara si spiega in due modi complementari: da una parte il termine kara , che significa «vuoto» nell’accezione del buddismo zen, ha in giapponese una profondità maggiore, dall’altra il termine «mano cinese» non andava molto d’accordo col nazionalismo giapponese di inizio secolo. Questa nuova forma, kara-te, «mano vuota», si è diffusa nel corso degli anni Trenta, nel momento in cui i maestri di karate, arrivati dalla piccola isola di Okinawa, cercano d’inserire la loro arte nella più vasta tradizione del budo (insieme delle arti marziali dei guerrieri giapponesi).